Una lucida analisi della legislazione in tema di armi vigente in Italia. Nonostante le aspettative, non è mai stata sufficientemente chiarita e razionalizzata; a complicare le cose sono poi arrivate le normative europee, spesso altrettanto confuse e contraddittorie.
di Biagio Mazzeo, magistrato
È trascorso circa un quarto di secolo da quando chi scrive pubblicò il suo primo articolo sulla rivista Tacarmi (purtroppo scomparsa da tempo). A quell’epoca, complice la giovane età, sembrava facile sfatare miti e sconclusionate interpretazioni da parte dei diversi soggetti implicati nell’applicazione delle leggi, nella illusione che anche la legislazione si sarebbe, presto o tardi, chiarita e razionalizzata. Niente di più errato! A distanza di venticinque anni la situazione si è ulteriormente complicata, tanto che oggi regna l’incertezza su una serie di questioni, tutte rilevanti e tutte capaci di mettere a rischio il certificato penale delle persone interessate.
Esempi? Basta pensare alle ormai numerose classificazioni di armi detenibili (comuni, sportive, da caccia, di categoria A6, A7, B9); al quantitativo di munizioni che si possono detenere, secondo le varie destinazioni; alla questione dei serbatoi di tipologia vietata ma che possono essere detenuti e usati per la pratica sportiva.
Dobbiamo dare atto del faticoso lavoro di alcuni studiosi, in primo luogo quello del pugnace amico Edoardo Mori, che sulle riviste e sui siti internet cercano di interpretare nel modo più corretto e ragionevole possibile le leggi vigenti. Tuttavia, lo sforzo non sempre è destinato ad avere successo, perché se la legge è fatta male, l’armamentario del giurista non può bastare! Occorre che ci pensi il legislatore. Ma come?
Prendiamo un esempio paradigmatico: l’articolo 44 del regolamento del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, che afferma – tra l’altro – che sono considerate armi comuni da sparo, ai sensi dell’articolo 30 della legge, le pistole automatiche il cui potere di arresto non sia superiore a 25 metri. Per quanto sforzo si possa fare, questa disposizione non ha alcun significato, né tecnico né giuridico.
L’articolo 44 del Testo Unico
È abbastanza noto che il potere d’arresto (in inglese stopping power) definisce la capacità invalidante di un proiettile sparato con un’arma da fuoco. Si tratta, pertanto, di un argomento attinente alla balistica terminale. Tuttavia, non esiste un criterio universalmente accettato che definisca il potere d’arresto; in altre parole, non si tratta di un’unità di misura comunemente accettata come invece è, per esempio, quella relativa all’energia di un proiettile, che è misurabile e classificabile. A che cosa poi voleva riferirsi il legislatore nel 1940 quando stabiliva che le pistole semiautomatiche erano considerate armi comuni da sparo a condizione che il loro potere d’arresto non fosse superiore a 25 metri? Voleva forse intendere che il proiettile non doveva essere lesivo oltre quella distanza? Quest’ultima ipotesi deve essere subito scartata: non può esistere un’arma in grado di produrre lesività adeguata alla difesa personale, il cui proiettile diventi innocuo a 26 metri di distanza.
Anche volendo prendere in considerazione calibri di modesta potenza, come il .22 LR e il 6,35 Browning, il proiettile è in grado di percorrere diverse centinaia o migliaia di metri perdendo progressivamente energia per effetto dell’attrito dell’aria e della forza di gravità, ma rimane pur sempre pericoloso per l’incolumità delle persone, fino a quando l’energia residua non sia assai modesta. A tale proposito, ben pochi si preoccupano delle conseguenze dei colpi sparati in aria, sulla base dell’erroneo convincimento che il proiettile si dissolva o che, comunque, in fase di caduta non sia più pericoloso. In realtà, sono stati registrati numerosi casi di persone colpite a grande distanza da proiettili in caduta, con conseguenze serie anche se raramente mortali.
Si è perciò ipotizzato che il legislatore volesse riferirsi non ai metri, unità di misura di distanza, ma ai chilogrammetri, unità che misura l’energia di un proiettile o di un qualsiasi corpo che si muova nello spazio. Un chilogrammetro è pari a un chilogrammo forza per un metro: il chilogrammetro equivale quindi al lavoro necessario per spostare di un metro un corpo con massa di un chilogrammo. Si tratta, dunque, di un parametro tecnico, come tale misurabile e univoco; se il legislatore avesse voluto applicare un siffatto criterio, si dovrebbe interpretare la disposizione sopra citata nel senso che sono armi comuni da sparo solo quelle (semiautomatiche) che sparano un proiettile la cui energia non superi i 25 chilogrammetri.
Se così fosse, la legge porrebbe come limite massimo quello rappresentato dal calibro 7,65 mm Browning che, con caricamenti standard, è in grado di erogare in pistola poco meno di 24 chilogrammetri di energia (non sarà del resto casuale il fatto che dal 1940 e fino alla legge numero 110 del 1975, il Ministero dell’Interno considerava da guerra tutti i calibri per pistola semiautomatica superiori al 7,65 Browning).
Tuttavia, la legge – quando è lacunosa – non può essere interpretata in modo additivo, nel senso che chi la interpreta non può aggiungere precetti che non siano espressamente indicati nel suo testo. Pertanto, la disposizione dell’articolo 44 del regolamento TULPS non può essere intesa se non nel suo senso letterale, ciò che, in pratica, significa che la disposizione stessa è totalmente priva di valore precettivo ed è, di conseguenza, inapplicabile.
Quanto precede trova conferma nel fatto che, dal 1978 a oggi, è stato inserito nel Catalogo nazionale delle armi comuni da sparo un rilevantissimo numero di modelli di armi corte a funzionamento semiautomatico di potenza di gran lunga superiore ai 25 chilogrammetri, sicché tale limite – ove fosse stato mai davvero vigente – deve considerarsi oggi superato sotto tutti gli aspetti.
Perché allora il Ministero dell’Interno, che pure è intervenuto a modificare il regolamento del TULPS ritenendo che le sue disposizioni fossero di natura regolamentare, non si è curato di modificare l’articolo 44, ormai anacronistico e superato?
La licenza di collezione di armi comuni da sparo
Nel 1975, nel pieno dell’emergenza terroristica, entrò in vigore la legge numero 110, che modificava numerose disposizioni in materia di armi. In particolare, veniva posto il limite di detenzione di sei armi da caccia e di due comuni (non da caccia), con la conseguenza che il privato da quel momento in poi poteva detenere in tutto otto armi (oltre a otto armi antiche, artistiche o rare d’importanza storica).
È probabile che all’epoca fossero molti i possessori di armi che superavano tali limiti. Venne perciò concesso di poter detenere un numero maggiore di armi a condizione del previo rilascio di apposita licenza di collezione di armi comuni da sparo; del divieto di detenzione del munizionamento; dell’obbligo di munirsi di difese antifurto; infine, del divieto di detenzione di più esemplari dello stesso modello di arma, individuato in base al numero di iscrizione al Catalogo. La conseguenza di queste nuove norme era che ogni cittadino poteva disporre di sei armi per andare a caccia ma solo di due per ogni altra esigenza, sia che si trattasse di difesa personale sia che fossero destinate al tiro a segno.
Pochi anni dopo, verosimilmente su pressione delle organizzazioni sportive, venne proposta e approvata una modifica – con la legge numero 85/1986, cosiddetta legge Lo Bello dal nome del suo proponente – che aggiungeva sei armi per uso sportivo alle due comuni e alle sei da caccia; infine, con legge successiva e cioè con l’articolo 37, legge numero 157/1992, cadde totalmente il limite al numero di armi da caccia detenibili.
Più di recente, a causa dell’introduzione di nuove norme europee, si è arrivati alla decisione di vietare determinate tipologie di armi, seppur di calibro compatibile con l’uso venatorio, per il fatto di essere caratterizzate, dal punto di vista formale, da una più o meno spiccata somiglianza con armi da guerra: le armi categoria B7, oggi B9, cioè i cosiddetti black rifle.
Pertanto, quella che originariamente era una disposizione semplice, a seguito del succedersi di norme di segno opposto, ha portato a questo sviluppo tutt’altro che prevedibile: le armi da caccia possono essere detenute in numero illimitato, insieme a millecinquecento cartucce, senza obbligo di ricorrere a speciali misure antifurto; le armi comuni e quelle per uso sportivo possono essere detenute solo nei rispettivi limiti di tre (dopo la modifica nel frattempo intervenuta) e di sei (ora dodici a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo numero 104/2018); le armi in collezione sono sottoposte a un regime restrittivo, che prevede il divieto di detenzione del munizionamento (anche su questo il decreto legislativo numero 104/2018 ha introdotto alcune novità) e il ricorso a protezioni antifurto.
Non è necessario essere particolarmente esperti della materia per rendersi conto che si tratta di una normativa del tutto irrazionale e irragionevolmente vessatoria. Infatti, l’unica ragione per cui ha un senso prevedere un limite alle armi detenibili –limite che costituisce con ogni evidenza una restrizione della libertà individuale – è rappresentato dall’intrinseca pericolosità della singola arma o dalla pericolosità insita nell’accumulo di un determinato numero di armi nella disponibilità di una sola persona.
Nella normativa attualmente vigente esiste, invece, un trattamento del tutto difforme per quanto riguarda le armi da caccia, per le quali non esiste alcun limite, e tutte le altre armi da sparo non da caccia. Ora, le armi da caccia non sono affatto meno pericolose delle altre e, anzi, per quanto riguarda quelle lunghe, non si possono usare sul campo di caccia proprio i fucili dotati di minore capacità offensiva.
Pertanto, armi intrinsecamente più pericolose quali sono i fucili da caccia possono essere detenute in numero illimitato, senza obbligo di munirsi di difese antifurto e con la facoltà di detenere le relative munizioni, il cui numero consentito per le armi lunghe da caccia è di millecinquecento; per contro, armi meno pericolose intrinsecamente quali sono per esempio i fucili in calibro .22 Long Rifle possono essere detenute per un massimo di tre esemplari (se armi comuni) o di dodici (se sportive) con la possibilità di detenere solamente duecento cartucce e di fruire della licenza di collezione, che però comporta una serie di limitazioni, già sopra indicate, che vanificano in parte il vantaggio di poter superare il relativo limite.
In sostanza, abbiamo una normativa che adotta due pesi e due misure per disciplinare la materia, senza perseguire nessuna reale finalità di tutela dell’ordine pubblico o dell’incolumità pubblica.
È evidente, infatti, che è possibile commettere crimini sia con armi lunghe sia con armi corte e che l’accumulo di notevoli quantità nelle mani di un detentore di armi da caccia è tanto pericoloso quanto quello di armi di diversa tipologia nella disponibilità, per esempio, di un collezionista.
Incredibilmente, questa ingiustificata disparità di disciplina non ha trovato finora nessun intervento correttivo, mentre al contrario si è assistito negli ultimi anni a un fiorire di nuove leggi, sulla base di vere o presunte esigenze di adeguamento dell’ordinamento interno alle direttive europee.
La soluzione – a parere di chi scrive – sarebbe del tutto agevole e avrebbe anche il pregio di alleggerire gli organi periferici della amministrazione della Pubblica Sicurezza (questure, commissariati) da una serie di adempimenti burocratici, sostanzialmente inutili e vessatori per i cittadini quali il rilascio della licenza di collezione, l’inserimento delle armi in licenza e così via. Si tratterebbe, in pratica, dell’abolizione della licenza di collezione e della previsione di obblighi di custodia differenziati in base al numero di armi detenute.
È infatti del tutto illogico imporre difese antifurto al titolare di licenza di collezione che detenga in tutto quattro armi comuni da sparo (di cui una sola in collezione) e non prevedere analogo obbligo a carico del detentore di cento fucili da caccia.
Con pochissimi articoli di legge si potrebbe dunque: abrogare la licenza di collezione di armi comuni da sparo; prevedere determinate soglie numeriche e/o di tipologie di armi, oltre le quali scatterebbe l’obbligo di munirsi di dispositivi antifurto; unificare il numero massimo di cartucce detenibili, indipendentemente dal fatto che siano per arma lunga o corta (per esempio, millecinquecento cartucce in tutto); riformare la licenza per la detenzione di munizioni per esigenze particolari (attività agonistica, studio), che di fatto già esiste ma che viene rilasciata sulla base di presupposti non molto chiari.
Le cartucce per le armi in collezione
A proposito di quest’ultimo punto, pensiamo che una delle disposizioni più inutili e mal concepite del nostro ordinamento è quella che vieta al collezionista di armi di collezionare le relative munizioni, stante il citato divieto di detenere il munizionamento. Infatti, tale disposizione avrebbe un senso se non ci fosse un limite massimo di munizioni detenibili già presente nella normativa vigente: duecento cartucce per pistola o rivoltella e millecinquecento per fucile da caccia. Poiché invece il limite esiste, si comprende bene che nessun collezionista potrebbe accumulare legalmente un numero tale di munizioni da poter trasformare la propria collezione in una sorta di dotazione militare.
In effetti, anche il titolare di licenza di collezione di armi comuni da sparo può detenere armi e munizioni sia pure non per le armi inserite in collezione. Ma comunque, anche se la legge gli consentisse di detenere le munizioni nello stesso calibro delle armi in collezione, non potrebbe in nessun caso superare il limite, rispettivamente, di duecento e di millecinquecento cartucce.
Si comprende bene, perciò, che nessun effetto pratico di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica può essere attribuito al divieto di detenzione del munizionamento per le armi in collezione.
Armi antiche, artistiche e rare d’importanza storica
La normativa vigente, contenuta nella legge numero 110/1975 con riferimento al Testo Unico e nel decreto ministeriale 14 aprile 1982, non brilla certo per chiarezza e, di conseguenza, ha determinato numerose incertezze.
Anzitutto, si è dubitato che siano comprese nel novero delle armi antiche, oltre a quelle prodotte anteriormente al 1890, anche quelle di modello anteriore a tale anno ma prodotte successivamente.
La questione si presta a diverse soluzioni, anche se la più ragionevole è quella che tiene conto solo dell’epoca del modello non di quella della fabbricazione del singolo esemplare. Si tenga conto del fatto che non è sempre possibile determinare l’epoca di fabbricazione di un’arma prodotta tra il 1890 e il 1920 (convenzionalmente considerato come anno d’introduzione dell’obbligo di apporre sulle armi il numero di matricola), risultando sicuramente più facile datare il modello di arma.
Quanto alle armi artistiche e rare, l’utilità di tali categorie è molto limitata, essendo comunque riservata ad armi di modello anteriore al 1890 e, quindi, sostanzialmente riconducibili alla categoria delle armi antiche. Sfuggono a tale categoria, invece, le armi artistiche – per esempio cesellate da rinomati artisti – e quelle rare, in quanto appartenute a personaggi celebri (oppure prototipi di armi non entrate in produzione), quando esse risultano progettate dal 1890 in poi.
Ora, poiché le armi sono manufatti che, come tanti altri, possono testimoniare lo sviluppo della conoscenza e dell’arte, non c’è ragione di differenziare la loro tutela (perché si tratta per l’appunto di tutelare la loro conservazione oltre che favorire i loro detentori) solamente sulla base del fatto che si tratti di armi più o meno moderne.
Non è affatto detto che armi di epoca più recente non possano avere un rilevante interesse storico, tecnico o scientifico. La legge dovrebbe semplicemente contemperare le esigenze di tutela della sicurezza pubblica con altre esigenze pure meritevoli di considerazione. Altrimenti, l’effetto è la distruzione di un patrimonio di oggetti pregiati o di rilevanza storica, senza per questo tutelare in alcun modo la sicurezza dei cittadini.
Un ulteriore argomento in tal senso è dato dal fatto che le armi ad avancarica di produzione originale rientrano tutte nella disciplina delle armi antiche mentre quelle di produzione moderna, cioè le cosiddette repliche, sono in alcuni casi di libera vendita e detenzione. Ci si riferisce alle repliche di armi ad avancarica a un solo colpo, che non sono più considerate armi ma sono trattate alla stregua di strumenti sportivi, pur essendo altrettanto efficaci rispetto ai corrispondenti esemplari di armi d’epoca.
Non si comprende, dunque, il senso di una normativa che determina irragionevoli disparità di disciplina con effetti puramente vessatori per i cittadini ma senza alcun vantaggio apprezzabile per la tutela della comunità. Non dimentichiamo infine che le armi antiche sono di libera vendita in alcune nazioni dell’Unione Europea, la cui cultura giuridica è analoga alla nostra come pure simili sono le condizioni socio-politiche.
Le armi in calibro 9 Parabellum
La normativa del Testo Unico e del suo regolamento, così come veniva interpretata e applicata prima della legge numero 110/1975, aveva finito per consentire ai civili le sole pistole semiautomatiche in calibro 7,65 Browning o inferiore: tutti i calibri maggiori venivano considerati da guerra, compreso il 7,65 Parabellum.
L’idea sottostante tale disciplina, che – occorre ricordarlo – non derivava espressamente dalla legge ma era piuttosto frutto di prassi amministrativa, era che il privato non avesse bisogno di armi corte di elevata capacità offensiva per la sua difesa, le quali erano riservate ai militari. Già all’epoca, però, vi era l’incongruenza rappresentata dal fatto che le rivoltelle erano ammesse praticamente in qualunque calibro, sicché i privati finivano per preferire queste ultime per difesa.
Si potrebbe supporre che i corpi militari e di polizia valutassero con sfavore il fatto che i privati potessero possedere e usare armi semiautomatiche dello stesso tipo e calibro di quelle a loro assegnate; sta di fatto che il 9 Parabellum, così come il già menzionato 7,65 Parabellum, nonché il 9×17 mm (alias 9 Corto) e il .45 ACP, calibri per pistola tra i più diffusi su base planetaria o quanto meno nel mondo occidentale, furono riservati in Italia alle forze armate e a quelle di polizia.
Con l’avvento del Catalogo nazionale delle armi comuni da sparo, introdotto dalla legge numero 110/1975 e reso operante a partire dal 1978, si è avuta una progressiva erosione di questo dogma. Seguendo l’ordine progressivo del Catalogo, si può constatare che tra le prime vennero catalogate pistole in calibro 7,65 Parabellum; nell’ottobre del 1979 è la volta della prima pistola in 9 Ultra (9×18), inserita al numero 1481; nel 1981, con il numero 2787, fu catalogata la prima semiautomatica in 9 Steyr, un calibro obsoleto ma suscettibile di caricamenti di potenza pari o superiore al 9 Parabellum; l’anno dopo fu poi la volta del 9 Browning Long, che comparve al numero 3169.
Nel 1985 entrò per la prima volta nel Catalogo il calibro 9×21 IMI (numero 4497), che avrà poi una grandissima diffusione nel nostro Paese, e soltanto nel nostro Paese, in quanto replicava in tutto e per tutto le prestazioni balistiche del 9 Parabellum e poteva essere adattato ad armi che nascono in quest’ultimo calibro con una semplicissima operazione tecnica: si tratta infatti di una cartuccia che riproduce esattamente le misure del 9 Parabellum ovvero 9×19, con l’unica differenza della lunghezza del bossolo, di due millimetri più lungo, ma a parità della lunghezza totale della munizione.
Nel 1989 fu catalogata la prima pistola semiautomatica in calibro 9×17 (9 Corto, ovvero .380 ACP), all’epoca ancora in dotazione alle forze armate e di polizia ma in via di completa sostituzione con il 9 Parabellum, già in uso nelle armi corte d’ordinanza. Con il numero 7144 registrammo poi la catalogazione della prima pistola in calibro 9 Glisenti. Si tratta di una munizione che presenta le medesime misure del 9 Parabellum, tanto che nelle note alle schede di catalogazione fu inserita la dicitura: Deve impiegare solo cartucce cal. 9 mm Glisenti, essendo teoricamente possibile – seppur sconsigliato, trattandosi di cartuccia di maggiore potenza – l’inserimento nel serbatoio e nella camera di cartuccia di munizioni in calibro 9 Parabellum. Giunti al 1993, la Commissione diede infine il via libera anche al 9 Largo (calibro di ordinanza iberica) in arma corta, dopo che poco prima era stata catalogata una carabina nello stesso calibro.
Mentre si avviava il processo di liberalizzazione di tutti o quasi i calibri 9 per pistola semiautomatica, restava ancora il tabù del .45 ACP. Esso fu infranto dapprima con la catalogazione al numero 4082 della prima pistola semiautomatica in calibro .45 HP nell’ottobre 1984: si tratta sostanzialmente di un clone del .45 ACP di ordinanza americana, il cui bossolo misura 0,8 millimetri meno dell’originale. Per poter usare la prima pistola semiautomatica (numero 10278) in calibro .45 ACP si dovrà attendere, invece, il 1997.
Nel frattempo, però, il Catalogo annoverava già sin dalle prime mosse armi corte catalogate sia in 9 Parabellum sia in .45 ACP. Siamo nel 1979, quando con il numero 537 fu catalogata una rivoltella in 9 Parabellum (per il cui calibro si ricorse alla denominazione alternativa e pudica di 9 Luger); nello stesso anno, con il numero 341, venne autorizzata il primo revolver in .45 ACP, questa volta con la denominazione originale. La Commissione consultiva stabilì però che l’arma, nel primo caso, dovesse impiegare esclusivamente cartucce con proiettile di piombo nudo e, nel secondo, esclusivamente cartucce in calibro .45 ACP con proiettile di piombo nudo privo di qualsiasi tipo di incamiciatura o blindatura sia parziale che totale.
Sarebbe interessante conoscere i retroscena di siffatte scelte tecniche da parte della Commissione e del Ministero dell’Interno. Siamo di fronte alla classificazione come armi comuni da sparo di rivoltelle in calibri da pistola semiautomatica, con la prescrizione (non prevista da alcuna legge) del divieto di uso di munizioni blindate. Tuttavia, dal punto di vista balistico né il fatto di utilizzarla in pistola a rotazione né l’impiego di proiettile di piombo nudo costituiscono elementi tali da influire sulla capacità offensiva della munizione.
A essere precisi, la rivoltella registra per ragioni tecniche una modesta perdita di potenza per la presenza del gap tra canna e tamburo ma a parità di lunghezza di canna; sicché un revolver con canna lunga può lanciare un proiettile a una velocità maggiore rispetto a una pistola semiautomatica con canna più corta. In pratica, quindi, pistola a rotazione e pistola semiautomatica sono, dal punto di vista balistico, equivalenti. Esiste, certamente, una differenza di capacità dei rispettivi tamburi o serbatoi a favore delle pistole semiautomatiche (solitamente, i primi non ospitano più di sei cartucce), ma ciò non può influire sulla qualificazione di un’arma come comune o da guerra.
La legge numero 110/1975, infatti, stabilisce che sono armi da guerra le armi di ogni specie che, per la loro spiccata potenzialità di offesa, sono o possono essere destinate al moderno armamento delle truppe nazionali o estere per l’impiego bellico. È ben difficile sostenere, però, che la stessa munizione, solo perché sparata in una pistola a rotazione, possa perdere la spiccata potenzialità che la caratterizza, o che, analogamente, sia sufficiente passare dal proiettile blindato a quello di piombo nudo per ricondurre la potenzialità d’offesa nei limiti consentiti a un’arma comune da sparo, sottraendola così dalla qualificazione come arma da guerra.
La verità è che la Commissione consultiva si è trovata sempre divisa al suo interno tra i fautori di una maggiore apertura e i rappresentanti della parte pubblica, che preferivano mantenere una sorta di monopolio di determinati calibri, assegnati in dotazione alle forze armate e alle forze di polizia.
Poco importa che tale duplicità d’uso sia prevista nella maggior parte delle nazioni europee, oltre che negli Stati Uniti, dove nessuno si scandalizza se i cittadini detengono e portano per difesa le stesse armi in uso ai militari e alla polizia (escluse, ovviamente, quelle con funzionamento a raffica). Fu escogitato un compromesso alquanto barocco, per cui i privati possono avere le medesime armi ma con una cartuccia-clone (9×21 IMI), che non può essere utilizzata nelle armi militari per la maggiore lunghezza del bossolo, mentre al contrario le armi in calibro civile possono quasi sempre utilizzare agevolmente la cartuccia militare.
Una scelta siffatta risulta incomprensibile, ma anche pregiudizievole per l’interesse pubblico, dato che in situazioni di emergenza l’utilizzo dello stesso calibro potrebbe consentire alla forza pubblica di approvvigionarsi di munizioni sul mercato civile con la massima rapidità, mentre il mantenimento di una inutile distinzione di calibri fa sì che, all’occorrenza, debbano essere necessariamente acquisite risorse esterne, da produttori esteri, o si debbano attendere forniture specifiche per le organizzazioni militari.
La verifica da parte del Banco di Prova
Dal 2013, dopo la soppressione del Catalogo nazionale delle armi comuni da sparo avvenuta nel 2011, il legislatore ha introdotto l’istituto della verifica da parte dell’organo tecnico di Gardone Val Trompia, già deputato alla prova delle armi prima della loro immissione in commercio.
Nel corso degli anni, il Banco ha visto accrescere le proprie funzioni, originariamente limitate alla prova delle armi, al fine di garantirne la sicurezza. In base alla legge numero 110/1975, infatti, il Banco è tenuto anche a controllare che le armi siano provviste di tutti i segni distintivi e identificativi previsti dalla legge.
La verifica consiste in una procedura in effetti analoga a quella di catalogazione, prevista sotto la vigenza del Catalogo. Sulla base di una relazione tecnica del fabbricante o dell’importatore, il Banco deve appunto verificare se si tratta di arma comune da sparo e, in caso affermativo, indicare anche la categoria di appartenenza in relazione all’elencazione contenuta nella Direttiva europea sulle armi da fuoco.
L’attribuzione di questo potere al Banco Nazionale di Prova presta il fianco a numerose critiche, anche perché – come si vedrà più avanti – non ha alcun senso l’adozione, ai soli fini della verifica, delle categorie europee non ancora formalmente recepite nel nostro diritto interno, senza contare che le armi da sparo da verificare sono anche quelle ad aria compressa e gas precompressi di potenza superiore a 7,5 Joule, non prese in considerazione dalla direttiva, che si occupa solo delle armi da fuoco.
Ma, a prescindere da queste considerazioni, occorre domandarsi quale sia la funzione dell’attività di verifica. Già in passato numerose critiche si erano levate contro il sistema di catalogazione, tanto da portare all’abolizione del Catalogo stesso; ora, attraverso la verifica si riproducono in buona parte i difetti del vecchio sistema, forse con qualche inconveniente in più. Si noti a tale proposito che per esempio la verifica, a differenza della catalogazione, non prevede l’apposizione di alcun numero o altro contrassegno sull’arma, sicché l’unico modo per sincerarsi se l’arma in proprio possesso sia verificata consiste nell’accedere al sito internet del Banco di Prova ed effettuare una ricerca in base alla marca, al modello e alle caratteristiche tecniche dell’arma.
Tornando al quesito iniziale, in che cosa consiste la funzione della verifica da parte del Banco di Prova?
Com’è noto, la legge numero 110/1975 distingue ancora le armi da sparo in tre categorie: armi da guerra, armi tipo guerra e armi comuni da sparo. Questa tripartizione, che non trova alcun corrispettivo nella disciplina europea che dovremmo aver recepito, comporta che solo le armi appartenenti all’ultima delle tre categorie sopra elencate possano essere nelle mani dei cittadini, mentre le prime due (in verità, solo la prima) possono essere dotazione delle forze armate e delle forze di polizia.
Pertanto, si pone il problema di come stabilire se un’arma appartenga alle prime due categorie (vietate) o alla terza (consentite). La soluzione più semplice sarebbe quella di stabilire parametri tecnici molto chiari, di modo che i produttori e gli importatori, attenendovisi, abbiano la certezza di non incorrere in alcun illecito.
In effetti tali parametri tecnici sono già presenti nella legislazione italiana e precisamente nella legge che disciplina i materiali d’armamento, la numero 185/1990, in base alla quale costituiscono materiale d’armamento le armi da fuoco automatiche e il relativo munizionamento, e le armi, anche non automatiche, di calibro superiore a 12,7 mm. Pertanto, la semplice lettura della legge e degli elenchi allegati permette di stabilire che sono materiali d’armamento (quindi destinato esclusivamente all’uso militare in ragione della sua spiccata potenzialità d’offesa) soltanto le armi da fuoco automatiche e quelle, anche semiautomatiche, a ripetizione o a colpo singolo, di calibro superiore a 12,7 mm.
Non esiste alcun motivo logico per adottare un complesso iter burocratico solamente al fine di verificare se un’arma corrisponda o no a questi due semplici e chiari parametri tecnici.
Si potrebbe obiettare che il Banco non dovrebbe limitarsi a verificare se l’arma funziona in modalità automatica ma anche se la stessa sia suscettibile di funzionare in automatico per effetto di modifiche successive; in altre parole, il controllo sarebbe finalizzato a controllare se l’arma sia stata progettata in modo da scongiurare possibili trasformazioni. A tale proposito, si consideri che esistono numerose tipologie di armi che non sono suscettibili di essere trasformate per il tiro a raffica, come per esempio le rivoltelle o i fucili bolt action. Per tali tipologie, dunque, non si rende necessaria alcuna verifica.
Per quanto riguarda le armi semiautomatiche, occorre distinguere tra quelle progettate e prodotte per il solo funzionamento semiautomatico, che rispondono a criteri costruttivi incompatibili con la loro trasformazione successiva, e quelle originariamente funzionanti a raffica, sottoposte a modifiche tecniche per la successiva immissione nel mercato civile. Una procedura di verifica potrebbe essere riservata solamente a tale tipologia di armi, che, peraltro, in base alla nuova direttiva europea sulle armi da fuoco, sono state inserite tra quelle non più di libera diffusione, con la conseguenza che ne è consentita la detenzione esclusivamente a soggetti che svolgono specifiche attività sportive.
In conclusione, la fabbricazione e la vendita di armi in ambito privato da parte di soggetti muniti della prescritta autorizzazione potrebbe avvenire sulla base di una semplice dichiarazione dello stesso produttore, importatore o venditore che lo specifico esemplare o modello di arma non presenta caratteristiche tecniche di arma da guerra, tipo guerra o, comunque, vietate.
In questo modo si snellirebbe in modo notevole la procedura senza alcun pregiudizio per l’ordine e la sicurezza pubblici. Infatti, sebbene prima con il Catalogo, e oggi attraverso la verifica del Banco di Prova, si accerti che un determinato modello di arma è comune, nulla impedirebbe al fabbricante o al venditore di trasformare un’arma comune in arma da guerra, se tecnicamente possibile. La sicurezza che le armi messe in commercio non siano di tipo vietato deriva dalla serietà e dall’affidabilità del soggetto, oltre che dall’effettività dei controlli di pubblica sicurezza.
Detenzione di munizioni
L’attuale normativa in tema di munizioni costituisce un ginepraio quasi inestricabile.
L’articolo 97 del regolamento TULPS consente la detenzione di duecento cartucce per pistola o rivoltella e di millecinquecento cartucce per fucile da caccia.
Appare evidente la carenza di una disposizione che non contempla neppure le cartucce per fucile non da caccia: infatti, esistono taluni calibri da fucile che non sono compatibili con l’uso venatorio. Inoltre, la norma citata consente anche la detenzione della polvere da sparo fino a cinque chilogrammi ma nulla dice su come regolarsi quando la polvere viene utilizzata per caricare munizioni.
Infine, come già detto, la legge numero 110/1975 ha stabilito l’assoluto divieto di detenzione di munizioni per le armi in collezione. Questo divieto, che nasce evidentemente da un atteggiamento di sospetto verso il collezionista, non tiene affatto conto del fatto che quest’ultimo desidera raccogliere le testimonianze storiche in materia oplologica, di cui fanno evidentemente parte non solo le armi ma anche le munizioni, soprattutto quando si tratta di cartucce d’epoca.
Come già accennato nel paragrafo relativo alla collezione di armi comuni da sparo, il sistema normativo prevede una serie di vincoli burocratici del tutto illogici e inutili nell’ottica della tutela della sicurezza pubblica.
Non resta, dunque, che auspicare una riforma legislativa che tenga conto della possibilità di detenere munizioni in misura adeguata alle esigenze attuali, soprattutto per quanto riguarda i tiratori sportivi, senza distinguere tra le diverse tipologie, anche perché le munizioni per pistola, in media, contengono meno polvere di quelle per fucile, sicché non si vede per quale ragione la legge dovrebbe considerare più pericolose le prime delle seconde.
Condivido tutto pienamente, e possibile fare qualche protesta? Qualche referendum? Qualche petizione?
Certamente! Un referendum potrebbe essere un’ottima scelta, perché permetterebbe di rimuovere selettivamente le disposizioni più incoerenti, come, per esempio, quelle relative alla licenza di collezione.
Tuttavia, la proposizione di un referendum richiede un certo livello di organizzazione, perché è necessaria preliminarmente la raccolta di almeno cinquecentomila firme.
Altre possibili iniziative sarebbero quella della proposta di legge d’iniziativa popolare (richiede cinquantamila firme) oppure l’organizzazione di eventi pubblici come convegni o seminari di studio.
Speriamo che qualcosa possa muoversi nel prossimo futuro!
BM
A PADOVA LA QUESTURA E’ PERTINACE: I COLLEZIONISTI E LEGALI DETENTORI DI ARMI POSSONO DIVENTARE PERICOLOSI PER SE’ E PER GLI ALTRI SE NE POSSEGGONO PIU’ DI 100.
Sono partite le prime notifiche di avvio procedimento ex art. 7 L. 241/1990.
Nonostante le memorie scritte che, nei termini, i collezionisti hanno inviato alla Questura di Padova per contestare, motivando, l’assurda imposizione
– di limitare a n. 100 le armi legalmente ed a vario titolo detenute
– con obbligo di disfarsi di quelle esuberanti,
sono stati loro notificati i primi avvii di procedimento.
Gli indirizzatari dovranno pertanto adempiere nel termini di 180 gg con la cessione a terzi (musei, rottamazione, vendita) oppure scegliere di tutelarsi da quello che presenta tutti gli aspetti di un abuso, ricorrendo per vie gerarchica o giurisdizionalmente attraverso il TAR.
Qui, alcune considerazioni sono d’obbligo.
1) Sul numero massimo di armi 100 armi detenibili .
La prescrizione della Questura lo indica in 100 unità. Quindi, con 101 armi esisterebbe pericolo sociale e possibilità di abuso da parte del detentore.
Non esiste nell’ordinamento italiano alcuna legge che, in tema di armi, per imporre dei limiti faccia riferimento al numero 100.
Se questo limite divenisse esteso a tutti i legali detentori di armi della provincia di Padova, la confusione a livello nazionale in termini pratici, operativi e legali sarebbe totale e creerebbe disparità di trattamento con i possessori di armi delle altre provincie italiane, soprattutto se altre Questure, sull’esempio di quella patavina, si sentissero autorizzate ad imporre altri e diversi limiti, o non imporne affatto.
2) Sul pericolo di destabilizzazione della pacifica convivenza sociale in caso di possessori di armi in numero eccedente le 100 unità.
Fino a ieri, l’Autorità di P.S. – sempre a conoscenza del numero di pezzi in capo a ciascun soggetto – ha sempre monitorato ( e preventivamente autorizzato nel caso di inserimento in collezione ) ogni acquisto di armi e mai ha inibito incrementi in esubero a 100.
Va inoltre evidenziato che, oltre ai sistemi di sicurezza già imposti, è di data recente l’obbligo di installazione di impianti di videosorveglianza a cc. destinati al rafforzamento di dette misure per portarle ad uno standard che, forse, neppure le Armerie possono vantare e nei cui locali – aperti al pubblico a differenza di quelli dei privati collezionisti – si conservano decine di migliaia di di munizioni e ben più dei fatidici 5 kg. di propellente.
Ebbene, ora tutto questo è ritenuto dalla Questura di Padova insufficiente a tranquillizzarla nei confronti dei privati detentori-collezionisti. Viene infatti dalla stessa affermato che un elevato numero di armi, in assenza di limiti, costituisce elemento di rischio non definibile a priori e non esclude possibili eventuali futuri comportamenti illegittimi da parte del titolare.
Insomma si ammette di non essere in grado di conoscere e valutare quale sia lo standard di sicurezza più idoneo per la salvaguardia della sicurezza sociale e per evitare che il possessore possa dare di matto o commettere fatti illeciti ma, allo stesso tempo, si individua nel numero 100 la panacea ad ogni preoccupazione.
3) Sul pericolo di abuso da parte del detentore stesso o di terzi
E’ noto che i collezionisti di armi lo fanno prevalentemente per scopo di studio, di ricerca. Non è loro assolutamente consentito di detenere munizionamento per gli esemplari in collezione. Inoltre, per ogni tipologia e modello, è possibile detenerne un solo pezzo. Trattasi per lo più di modelli prodotti dal 1890 in poi, con munizionamento obsoleto e normalmente non reperibile.
L’insieme di questi elementi non depone certo a favore del riconoscimento in tali armi di potenzialità tali da incentivarne il furto per il loro successivo utilizzo in fatti illeciti.
Anche per quanto riguarda le altre armi non oggetto di collezione, detenibili solo da parte di soggetti in possesso di tutti i requisiti prescritti, la legge ne regolamenta tipologia e numero e lo stesso fa per il relativo munizionamento.
Va anche ricordato che il titolare di PdA è persona che deve sempre aver dimostrato la sua affidabilità attraverso buona condotta e rispetto delle leggi dello stato, quelle stesse leggi che impongono o autorizzano le Autorità di P.S. a rilasciare, inibire o revocare il titolo.
Non si capiscono quindi i motivi per i quali a Padova si vogliono perseguitare e punire i legali detentori di armi ponendo a loro carico vincoli non previsti dalle leggi dello stato al solo scopo di limitarne l’esercizio pacifico di un interesse legittimo che l’ordinamento, attraverso le leggi e gli organi a ciò preposti ed in considerazione della rispondenza dei requisiti soggettivi, ha loro consentito derogando al divieto generale vigente nello stato Italiano di possedere armi.
Chissà se, quando e da chi sarà data risposta. Forse dal TAR, attraverso l’assistenza di un avvocato e sostenendo ancora spese.
Oggi va così: i costi e sacrifici diventano necessari per tutelarsi da chi ci dovrebbe difendere.
Pd, 28.03.2021