SI PUO’ SPARARE? Ricavato dal Libro “Tra bombe e veleni… una vita”.

Di Romano Schiavi (esperto balistico e in esplosivistica, generale d’artiglieria in congedo, istruttore armieri, fochini, pirotecnici. Dipl. Forensic Science Society, scrittore, ex direttore Arsenale militare di Brescia, ex presidente CTP Brescia, membro della ex Commissione Tecnica Consultiva del catalogo nazinale armi, ex tiratore agonista di fama mondiale, progettista poligoni, campi di tiro civili e militari, fabbriche armi, munizioni, esplosivi, pirotecniche, ecc ecc).

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Tra bombe e veleni….una vita!
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Capitolo 23. SI PUÒ SPARARE?

          Si dice che è meglio un cattivo processo che un buon funerale. Io, invece, penso che un cattivo processo equivalga a un funerale e che sia, quindi, più difficile scegliere. Dipende dalla sensibilità di ciascun individuo.

          Molti mi chiedono cosa potrebbe succedere se si spara per legittima difesa, ma non so rispondere. L’art. 52 del codice penale[1] pare effettivamente che lo consenta, ma senza poter precisare un metro con cui sia possibile misurare l’entità dell’offesa che giustifichi la difesa legittima ed occorrerà, pertanto, che sia un giudice a misurarla e cioè un uomo che, per quanto retto e privo di pregiudizi, non è Dio Onnipotente e, quindi, infallibile.

          I fatti che racconterò, alcuni fra i tanti investigati che mi tornano alla memoria, sono riportati proprio per rendere evidente le disparità di giudizio che si possono avere da parte dei Giudici, nel valutare uno stesso fatto.

          A pochi chilometri da Brescia ci fu una rapina presso un’oreficeria in cui il rapinatore fu ucciso. Era capitato che il figlio del titolare fosse entrato in negozio rapina durante e che fosse stato mandato ad aprire la cassaforte, senza essere perquisito. Il giovane, approfittando di una disattenzione del rapinatore che stava arraffando quanto poteva dal bancone, estrasse la sua potente pistoletta cal. 6,35 Brw. e lo minacciò.


[1] Art. 52 c.p. ed ancor più la Legge 59/06 che amplia la sua sfera di applicabilità, dice infatti che non è punibile chi abbia sparato perché costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui, visto sia come personale (la vita) o patrimoniale (la proprietà) contro il pericolo di un’offesa ingiusta quando, e qui sta l’inghippo, la difesa sia pari (?) all’offesa. (tutto ciò, prima dell’entrata in vigore dell’ultima legge in proposito)

Queste cose non “s’hanno da fare!”. A Darfo un orefice fece altrettanto e fu ucciso, a Coccaglio un altro fu gravemente ferito così come accadde nel vicentino, dove invece l’orefice morì come il primo. E potrei continuare nell’elenco.

Anche in questo caso il rapinatore, niente affatto impressionato, puntò la sua calibro 40 Smith & Wesson che, vista di fronte, doveva sembrare grande come una casa. L’orefice allora sparò e il rapinatore cadde a terra, ma prontamente si rialzò e puntò di nuovo la sua pistola. Di nuovo l’orefice sparò e così fece in altre due occasioni, ogni volta che il rapinatore si rialzava. Al quarto colpo, che lo colpì dall’alto al basso mentre si rialzava, il rapinatore non puntò più la pistola, ma mise il sacco della refurtiva in spalla e se ne andò. Non percorse molta strada perché, arrivato sulla porta, spirò. (Nella foto il colpo mortale). L’ultimo colpo sparato gli aveva spaccato il cuore. L’orefice, non aveva corso alcun rischio perché al rapinatore, qualcuno aveva fornito una pistola composita: un fusto della modello 92, un carrello della modello 98, una canna calibro 40, ma un serbatoio pieno di cartucce cal. 9 parabellum che entravano dentro la canna dalla culatta e uscivano intere dalla volata.

Il magistrato optò per la legittima difesa e fece riconsegnare l’arma sequestrata, in un primo momento, per gli accertamenti.

          La cosa più conveniente per un orefice sarebbe quella di lasciarsi derubare. Alle volte, tuttavia, subentra un impulso naturale a reagire a un sopruso e allo stato di umiliazione cui certe violenze sottopongono l’individuo. E, poi, lasciarsi derubare non è sempre sufficiente a fermare la furia omicida come successe a Pontevico in cui l’intera famiglia, legata e imbavagliata ed in grado di non nuocere, fu giustiziata con un colpo alla nuca.

          Un orefice, in centro città, era stato più volte derubato e, in un caso, di fronte ai suoi familiari, era stato costretto ad aprire la cassaforte. Comprò pertanto un’arma e disse che la volta successiva, a costo della vita, avrebbe reagito. E così avvenne. Uccise uno dei rapinatori e fu ucciso a sua volta.

          Il negozio dell’orefice era in una piazza del centro e per fare i rilievi e trasportare le attrezzature era necessaria la vettura. Mentre, con un morto ancora a terra, stavo facendo i rilievi, un vigile urbano mi faceva la contravvenzione. Rappresentato e non ce ne era bisogno, cosa stessi facendo, non si degnò neanche di rispondere o di alzare soltanto lo sguardo. Poiché era presente il comandante dei vigili, riferii la cosa, ma mi rispose che non poteva interferire sull’operato dei suoi dipendenti. Dopo avergli chiesto per quale ragione gli avessero dato i gradi, piantai tutto e andai da Sindaco entrando nel suo ufficio senza neanche bussare. Il Sindaco mi fece avere un tesserino di libera circolazione e, naturalmente, togliere la contravvenzione.

I rapinatori, nel caso, erano stati due: uno biondo e uno moro, uno con i baffi e l’altro senza, uno con un giubbino rossiccio e l’altro in camicia. Sei diversi testimoni dettero sei versioni differenti dell’assassino facendo tutte le combinazioni possibili. Successe anche in un famoso caso capitato a Londra, relativo a un crollo di un palazzo a seguito di un’esplosione e oggetto di studio da parte degli esplosivisti, in cui per uno stesso fatto furono raccolte una ventina di testimonianze diverse. Nel caso, purtroppo, l’orefice morì, ma non posso pronosticare cosa gli sarebbe successo se l’altro rapinatore non avesse sparato. In un altro caso, in un mini mercato della città, due rapinatori stavano minacciando con una arma la cassiera, moglie del titolare.

Questo ultimo corse, non visto, lungo le scaffalature e sparò senza indugio sui due, una volta giunto loro di fronte.

          Uno dei rapinatori morì subito mentre, l’altro, disarmato, cadde a terra ferito e si beccò un secondo colpo: siccome la ferita nello stomaco bruciava e cercava di sollevare il maglione, l’esercente interpretò l’azione come un tentativo di estrarre una pistola. Fortunatamente, se la cavò. Anche in questo caso lo sparatore riebbe subito la sua Walther pp.

          Non andrà sempre così. In un altro caso, un anziano signore fu accusato di tentato omicidio volontario e premeditato. Vecchio, solo, indifeso, in una villa isolata e a 15 km dalla stazione CC più vicina, aveva sparato al buio dalla finestra sul giardino, dopo che i ladri avevano sfondato la porta del garage comunicante con l’abitazione con una vecchia pistola Browning mod. 900, presa dal padre ad un ufficiale austriaco nella guerra 15/18, caricata con cartucce marcate aprile 1915, anziché telefonare

ai CC che sarebbero certamente arrivati “più veloci della luce” come “superman”.

          I colpi erano stati sparati in aria ma, il primo, verso il basso nell’aprire l’anta della finestra. Questo, secondo il magistrato, non era possibile perché i ladri avevano detto che la finestra era aperta, anche se quella aperta era effettivamente un’altra, da cui i bossoli non potevano arrivare nel punto in cui furono trovati, attigua a quella da cui era stato sparato. Uno dei ladri era rimasto ferito e gridava vendetta assieme al complice che si era costituito per amore di giustizia. I ladri avevano scavalcato il muro, tagliato i fili della luce e sfondato già una delle porte d’accesso ed erano ben consci che all’interno della villa c’era qualcuno. Il maresciallo non aveva arrestato perché l’anziano signore si era presentato in vestaglia tirandosi dietro il catetere e fu, per questo, pesantemente redarguito.

Per fortuna, la conclusione logica, ma poteva essere altrimenti, è stata quella pubblicata qui di seguito, anche se dopo quattro anni d’attesa.

In un altro caso un rapinatore morì con un colpo al cuore entrato dalla schiena. Prima di morire, pur avendo oltre settanta anni, aveva corso per cinquanta metri e scavalcato un muro.

Era successo che, svegliato da rumore nel sottostante negozio di generi alimentari, il proprietario era stato spinto dalla moglie a scendere perché, altrimenti, sarebbe andata lei. Per le scale, l’uomo, tanta era la paura, ruzzolò e gli uscì il caricatore della pistola Mauser HSC, come qualche volta capita con quest’arma, costruita dalla Renato Gamba con il macchinario originale della Mauser. Quando finalmente giunse al piano inferiore, nel retrobottega, fu investito da due rapinatori in fuga, uno dei quali armato di una mezza forma di formaggio.

 Mentre era violentemente colpito dall’arma impropria e sbattuto contro un frigorifero, l’uomo fece partire una sventagliata di quattro colpi dall’avanti all’indietro e da terra al soffitto, uno dei quali, il terzo, colpì il rapinatore in fuga. Anche in questo caso l’arma, in calibro 7,65 Browning, fu restituita. Il Pretore capo, l’unico magistrato con cui avevo confidenza, che non era certamente un amico dei ladri, mi

mandò a chiamare per dirmi che non era un reato da Pretura, come se fossi stato io a stabilirlo.

          Personalmente, non riuscirei mai a sparare a una persona. Poiché l’addestramento di tiratore a livello mondiale non mi consentirebbe di mancare il bersaglio, non sono mai andato in giro armato e non ho neanche mai chiesto il porto d’armi per difesa personale anche perché un rifiuto da parte dell’impiegato che mi ama, mi avrebbe istigato alla rissa e a di più. Ero uscito armato soltanto durante gli anni di piombo, quando l’allarme bomba[1] mi puzzava di agguato.             Mi rendo tuttavia conto di cosa significhi trovarsi un’arma puntata, contro e non ho pertanto disapprovato che sia stata riconsegnata subito la pistola alla guardia giurata che aveva sparato al rapinatore con la pistola puntata alla tempia di una commessa della COOP, anche se l’arma risulterà, poi, di plastica. La guardia morirà in uno scontro


[1] Conducevo personalmente le operazioni di antisabotaggio, addebitatemi come distrazione dal servizio dalle lontanissime autorità che non si sono mai degnate di venire a vedere cosa facessi davvero, paghe delle chiacchiere dei nullafacenti che abbondano nelle amministrazioni statali.

fuoco durante l’assalto a un furgone blindato della cui indagine non fui interessato o perché ormai sapevo troppo circa questo tipo di crimine o perché avevo parteggiato per il “vecchietto” nel caso dell’assalto alla villa isolata di cui ho parlato prima.

A Gussago, un esercente sorprese tre ladri che portavano via materiale dal proprio negozio di articoli sportivi e fu aggredito dagli stessi. Sparò su tutti e tre. Il più grave fu quello colpito alla pancia in corrispondenza di un bottone di acciaio che frantumò il proiettile, salvandogli, con tutta probabilità, la vita.

      Lo sparatore, esasperato, faceva una specie di “ronda di notte” e girava armato di una Beretta 98F con puntatore laser. I ladri erano disarmati, ma avevano la forza del numero, perché, l’arma gli fu restituita, nonostante che presentasse le sue ragioni in maniera violenta e inurbana.

          In Romagna, invece, a un maresciallo dei CC, andò in maniera diversa, come capita spesso. Avuta notizia che era stata compiuta una rapina a mano armata e avvistata la macchina con i rapinatori, il militare si era messo al suo inseguimento con la potente Panda in dotazione, guidata da un suo carabiniere. Arrivato a ridosso della più veloce vettura perché si era infilata nelle strade cittadine, pensò di fermarla con un colpo alle ruote. L’azione pareva facilissima perché la distanza era di appena un metro, ma lì dov’erano c’era un “panettone” o dosso, che alzò la traiettoria di trenta centimetri, sufficienti a far penetrare il proiettile nell’abitacolo e uccidere un noto pregiudicato.

Il maresciallo fu condannato, anche perché, dai vertici dell’Arma, si disse che avrebbe potuto sparare alle ruote solo se gli avessero sparato contro. Era come si fosse detto, in breve, che per sparare, occorreva che ci fosse, prima, un carabiniere morto. La condanna fu confermata in appello, ma un noto avvocato di Rimini riuscì a farlo assolvere in cassazione. La sentenza fece epoca.

          Non molto lontano da Cattolica, invece, un altro maresciallo ferì gravemente un olandese che era penetrato nel terrazzo di casa sua. Il militare aveva intimato più volte l’alt, ma l’intruso, arrivato a pochi passi da lui, aveva alzato la mano come avesse voluto sparare e fu pertanto fermato da un colpo di pistola. In realtà, lo straniero aveva alzato la mano per far vedere la “contromarca” di una discoteca da cui era appena uscito, timbrata sul dorso della mano: era in preda all’alcol e, per ritornare nel locale, si era arrampicato fino al terrazzo. La cosa fu complicata dal fatto che il ferito dichiarava di essere stato colpito nella strada, cosa impossibile anche se presa in seria considerazione dal magistrato e, soprattutto, dal ritrovamento di una pistola scacciacani vicino al luogo del fatto. Nessuno riteneva che la pistola potesse essere stata in mano all’intruso, anche se potevo portare ad esempio tantissimi casi di stranieri cui era stata sequestrata una pistola del genere, ritenuta spesso, da noi e solo da noi, erroneamente, “arma”. Non so come sia andata a finire la cosa, ma ritengo (statisticamente) che, trattandosi di un carabiniere, sia stato condannato.

          Come, d’altronde, capitò a un finanziere che uccise un nord africano durante una colluttazione. Il militare era rimasto ferito alle braccia da un coltello che la vittima sicuramente possedeva perché commerciava in Hascisc, ma fu ritenuto colpevole di omicidio volontario premeditato come se, quella sera, fosse andato in giro al solo scopo di uccidere. Le ferite se le sarebbe procurate da solo perché il coltello, rimasto due giorni nelle mani dell’investigatore e sottoposto a esami vari, non aveva tracce di sangue. Nel caso, la posizione del militare fu aggravata dalla perizia di un famoso e infallibile gabinetto. Il fatto era avvenuto, non lontano da Piazza Loggia in un vicolo che, dopo il passaggio sotto un volto, sfocia in una piazzetta senza altre vie di uscita. Poiché il proiettile che aveva cagionato la morte dell’extra comunitario era stato trovato nella piazzetta e non essendo nota probabilmente all’investigatore che i proiettili possono rimbalzare, si suppose anche uno spostamento del cadavere a scopo di depistaggio, nonostante che un testimone affacciatosi al rumore dello sparo avesse visto, invece, il cadavere nel vicolo, subito dopo lo sparo. In appello, tuttavia, i giudici preferirono un più realistico “colposo”.

          Le statistiche, almeno per quanto mi riguarda, mi fanno ritenere che il fatto che una vittima sia extracomunitaria, possa accreditare all’episodio una maggior gravità.      

In pattuglia di notte, l’equipaggio di una Gazzella dei Carabinieri incontrò una vettura rubata con a bordo un individuo a domicilio coatto con una donna risultata poi, una sudamericana. All’alt la macchina si era data alla fuga mettendo a repentaglio la sicurezza di macchine e passanti, finché aveva imboccato una strada senza via di uscita. Costretto a fermarsi, il fuggitivo aveva ingranato la marcia indietro quando i Carabiniere erano scesi dalla propria vettura per il controllo, rischiando di investirli. Il capopattuglia, un brigadiere da me tutelato in dibattimento, sparò alle gomme che, per fortuna sua, centrò rendendo possibile il recupero del proiettile, a testimonianza della sua azione corretta. L’altro, che era più dietro, fece altrettanto quando la vettura aveva guadagnato maggior velocità ma, anche per schivarla, colpì il finestrino posteriore ferendo leggermente ad una gamba la straniera. La vettura, un po’ per il tentativo di invertire la marcia e un po’ per la gomma floscia, andò a sbattere violentemente con la parte posteriore, contro il muro che costeggiava la strada e si fermò. Siccome dove si era fermata la vettura rimasero a terra i vetri del finestrino, il perito disse che il Carabiniere aveva sparato quando la vettura era già ferma in modo da conseguire un’accusa di tentato omicidio volontario. In Tribunale tentai di spiegare, pur non essendo il mio difeso, che i vetri temperati dei finestrini non cadono al momento dell’impatto di un proiettile, ma al primo urto successivo, come documentato anche non molto tempo prima, in un grosso processo svoltosi in Sardegna contro una sindacalista, condannata a due ergastoli; ma il perito insisteva dicendo che aveva fatto prove. Le prove le aveva fatte sparando a un vetro non intelaiato in un finestrino, ma appoggiato a un muro che, per me, era il colmo di un errore, non giustificabile dal fatto che fosse alle prime armi, perché il perito si fregiava del titolo di ingegnere. Non potei insistere raccontando il provato comportamento dei vetri temperati e di quelli multistrato del parabrezza perché l’avvocato, visti gli ammiccamenti di intesa fra consulente e giudice, come volessero dire “guarda le balle che tirano fuori i consulenti della difesa”, me lo impedì nella tema di ritorsioni contro il suo assistito. Il carabiniere fu pertanto condannato e radiato dal servizio in modo da costringerlo a rifarsi una vita con una nuova attività finita, purtroppo, in maniera terribilmente infausta.

Sopra, il vetro del parabrezza, a destra quello del finestrino

In un altro caso, di notte e sopra un argine, un carabiniere impose l’alt a un latitante che scappò verso il buio pesto di una stradina perpendicolare all’argine stesso. Il militare sparò due colpi di avvertimento ma, ahimè, verso terra come lui stesso dichiarò. E fu la sua condanna, perché l’indomani, il latitante fu trovato morto a qualche centinaia di metri dal luogo dello sparo, per una ferita assolutamente non grave, se curata. In effetti, mancando il corpo del reato, era difficile associare la ferita ai colpi sparati dal carabiniere, perché il deceduto poteva aver avuto nemici che, nella migliore delle ipotesi, l’avevano lasciato morire. Il militare fu condannato per omicidio ritenuto per fortuna, non so se in prima istanza o in appello, colposo. Eppure, un colpo a terra, specie su terreno erboso, è assolutamente più sicuro di un colpo in aria. Un proiettile cal. 9 parabellum sparato sulla verticale è in grado di sfondare un cranio soltanto per la velocità assunta con l’accelerazione di gravità. Molto tempo fa, un ragazzo, figlio di un ingegnere belga che lavorava a Ispra morì per un colpo 7,65 Brw., arrivatogli al cervello attraverso l’orecchio. Il colpo proveniva da un poligono distante oltre 500 metri, dove i tiratori, dei poliziotti in addestramento, per colpire meglio il bersaglio, si portavano fuori dalla pensilina che avrebbe dovuto impedire i colpi alti ed alzavano l’arma in verticale dopo ogni colpo, come si vedeva una volta nei film di Tom Mix. Un fatto analogo capitò anche fuori del poligono di Tor di Quinto, a Roma, con un proiettile calibro 22 LR.

A Verona, invece, l’uccisione di un ladro ed il ferimento di un altro, portò ad un penoso iter giudiziario, causato dell’insipienza del perito. Questo aveva stabilito che l’uomo aveva sparato dalla finestra al piano rialzato della villa al ladro, rimasto ucciso con un tramite del proiettile dal basso all’alto ed un ferimento volontario del complice mentre stava scavalcando un muro di cinta per scappare, a quaranta metri in una notte più nera del carbone. Nella realtà l’uomo, allarmato da una chiamata notturna inattesa e a cui non aveva potuto rispondere, si era armato di una Luger 7,65 pb, ma si era addormentato sul sofà del salotto. Svegliato da un lampo di un temporale, aveva dal sofà sparato istintivamente un colpo verso la finestra, aperta dai ladri, dove erano apparse delle ombre. Il colpo aveva ferito di striscio alla spalla uno dei ladri che era già entrato e mortalmente l’altro, mentre era aiutato a entrare. Sotto la finestra era stata trovata una sedia che non era certo servita per sedersi a prendere la pioggia e sul davanzale un’orma di un piede. Lo sparatore, che non si era accorto di aver colpito qualcuno e che aveva poi scaricato in aria gli altri colpi del serbatoio, fu dapprima condannato per omicidio e ferimento volontario premeditato (perché aveva avuto altri tentativi di furto) anche per la campagna mediatica condotta contro di lui, in cui era stato fatto intervenire contro “l’assassino” anche il padre della vittima, appena uscito di galera, ma tacitato poi con due lire. In appello gli venne riconosciuto, per fortuna, il colposo per il morto, ma gli rimase la volontarietà nel ferimento dell’altro, che fu l’unico a trovare giovamento dal fatto.

          La condanna per omicidio volontario era stata riservata anche a un carabiniere che aveva ucciso un ragazzo. Per me, era indubbio che il comportamento del militare non fosse stato corretto, ma far passare il ferimento come una vera e propria esecuzione, era un po’ troppo. Il tramite del proiettile sulla vittima era stato orizzontale o leggermente dal basso verso l’alto e questo fatto era stato determinante al fine della volontarietà. Io non so se in Tribunale lo facciano apposta o non capiscano proprio che il tramite e la traiettoria sono due cose distinte. In udienza, l’avvocato di parte civile, per dare maggior efficacia alla sua eloquenza, tirò fuori, da sotto la toga, una pistola di plastica e simulò il colpo alla nuca sulla vittima inginocchiata. La traiettoria, invece, era chiaramente verso l’alto, perché fu trovato l’impatto del proiettile, fuoriuscito senza deviazioni, in una traversa metallica a due metri e mezzo di altezza e appena un metro dietro al punto in cui si trovava la vittima. In appello la condanna fu ridimensionata, anche se il fatto rimane deprecabile.

          Per fortuna, a parte alcuni già raccontati, di fatti che hanno coinvolto militari, diciamo “esuberanti”, non ce ne sono tanti. Un giorno, durante un inseguimento, si sparò alle gomme per colpire invece il lunotto e, come capita spesso e purtroppo con i colpi sbagliati, rimase ucciso il passeggero che non aveva niente a che fare con la Giustizia. Il guaio più grave fu il rinvenimento a bordo dell’autovettura di una pistola che avrebbe dovuto giustificare lo sparo, col serbatoio sbagliato e fatta prendere in mano dal barelliere in modo da lasciarvi le sue impronte, della presenza di un finestrino chiuso da cui non si poteva sparare, di un colpo accidentale partito da un mitra dei militari a vettura ferma, che si diceva invece sparato con la pistola rinvenuta, per far vedere che lo aveva fatto. Il tutto, testimoniato da un cittadino al di fuori di ogni sospetto che assisteva da una finestra.

          In un ultimo caso infine, capitato in Valtellina, alcuni militari si improvvisarono “buttafuori” di una discoteca e si immedesimarono talmente nell’incarico, da prodursi in un inseguimento in macchina di un disturbatore. Ci fu anche uno sparo alle gomme che colpì il portabagagli. Il colpo, ed è per questo che sto raccontando il fatto, perforò la carrozzeria, la lamiera del sedile posteriore, il sedile anteriore, trapassò il passeggero, un alpino in permesso che aveva chiesto un passaggio, il cruscotto e un contenitore posto nel portaoggetti. L’alpino, per fortuna, se la cavò. Non sarebbe stato così se avesse invece attraversato il lunotto.

          Ho potuto notare che, quando ad un militare parte un colpo accidentalmente o comunque non finalizzato ad uccidere, normalmente va a bersaglio più spesso di quanto possa accadere in uno scontro a fuoco. Verrebbe da dire, a giustificazione di qualche colpo mortale “dubbio”, che se fosse stato sparato intenzionalmente non avrebbe sicuramente colpito la vittima!

Fra i fatti raccontati, quelli con esito positivo e cioè risolti come “legittima difesa” sono addebitabili a due soli magistrati.

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